La cena fu
mesta e silenziosa. Erano passate poco più di dodici ore
da quando
si era scoperto il cadavere di Venanzio. Tutti guardavano
di sottecchi
il suo posto vuoto a tavola. Quando fu l'ora di compieta il corteo che
si recò
in coro pareva
una sfilata
funebre. Partecipammo all'ufficio stando nella navata e tenendo d'occhio la terza cappella. La luce era poca, e quando vedemmo Malachia
emergere
dal buio per raggiungere il suo
stallo
, non potemmo
capire
di dove esattamente uscisse.
A ogni buon conto
ci facemmo nell'ombra, nascondendoci nella navata laterale, perché nessuno vedesse che restavamo lì a ufficio terminato. Io avevo nel mio scapolare il lume che avevo
sottratto
in cucina durante la cena. L'avremmo acceso poi al gran tripode di bronzo che restava
vivo
tutta la notte. Avevo uno stoppino nuovo, e molto olio. Avremmo avuto luce per molto tempo.
Ero troppo eccitato da quanto ci apprestavamo a fare per prestar attenzione al rito, il quale finì senza che quasi me ne accorgessi. I monaci si abbassarono i cappucci sul viso e uscirono in lenta fila per
recarsi alle loro celle. La chiesa rimase deserta, illuminata dai bagliori del tripode.
“
Orsù,”
disse Guglielmo. “Al lavoro.”
Umberto Eco. Il nome della rosa.