Ero venuta ad abitare a Parigi proprio nell'anno in cui si stavano innalzando i due torrioni sulla facciata di Nôtre Dame: millecentodieci, una data che ho
nel cervello. Non mi ero mai trovata dinnanzi a impalcature tanto alte, quando il cielo era
le ultime parapettate sparivano nelle nubi.
Mio zio era l'abate canonico di quella cattedrale e con lui vivevo nel vecchio chiostro dei benedettini, dietro l'abside che avevano appena
.
Ero una ragazzina a modo e quel mattino me ne stavo nel giardino ad aiutare a stendere i panni. Mi sento chiamare dal loggiato. Era mio zio, Fulberto. Mi prega di rassettarmi un poco, perché avrei
una persona molto importante. Tolgo il grembiule, raccolgo i capelli, arrivo sul loggiato correndo. Mi blocco carica di sconcerto di fronte a quel signore che pareva sistemato dentro una nicchia: l'atteggiamento solenne, le pieghe del panneggio che sembravano scolpite... così alte, quell'aria immobile... senza parvenza di respiro.
Si assomigliava proprio a una di quelle statue di pietra dipinte che s'affollano ieratiche in cattedrale lungo il transetto. Un san Matteo... un san Isidoro... pareva. E invece era Abelardo, primo lettore all'università.
Niente. La si osserva e basta.
Non avevo
nemmeno a piegar un poco le ginocchia per l'inchino, come si converrebbe a una fanciulla di sedici anni ben educata.
Cosa si prova davanti a una statua?
Mio zio fece le presentazione: "Non hai idea della fortuna che ti capita, figlia mia... Il maestro sarà ostro ospite. Ho
faticare, ma alla fine l'ho
. Abiterà la stanza che dà nel chiostro. Ha
a regalarti quattro ore al giorno del suo tempo prezioso".
In poche parole, lo zio mi appioppava quella specie d'evangelista
come insegnante. Ventotto ore la settimana con un mammozzo teologo
di fresco. Come minimo parlerà salmodiando il gregoriano, mi dicevo, e prima di rivolgerli la parola dovrò girargli intorno col turibolo per due volte annaffiandolo d'incenso.
L'amore e lo sghignazzo, di Dario Fo